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Le tribù del collasso 5. L’ambientalismo ecomodernista è una questione di riprogettazione: facilitare l’adattamento delle specie animali e vegetali ai cambiamenti climatici per mezzo dell’evoluzione assistita. A sentire i riparazionisti, l’influenza antropica sull’ambiente è ormai troppo estesa per essere attenuata, figurarsi invertita. Allora tanto vale ricomporre gli ecosistemi, ma intelligentemente e deliberatamente, secondo un nuovo disegno. “Non dovremmo vergognarci di tagliare e piantare, importare e ibridare, reintrodurre e rielaborare l’ambiente che ci circonda”, scrive Preston dando voce al pensiero riparazionista. Il mondo può essere salvato soltanto trasformandolo in un immenso giardino da curare, l’intera natura gestita razionalmente come fosse la fattoria dell’umanità. Con l’ausilio delle “scienze sintetiche” – nanotecnologie, fabbricazione molecolare, editing genetico, biologia sintetica, intelligenza artificiale e robotica, geoingegneria e ingegneria climatica, cyborg studies… – i riparazionisti sono certi di poter riprogettare le funzioni terrestri pregiudicate. Reingegnerizzando i processi planetari la Terra non sarà più la stessa, diventerà a tutti gli effetti un pianeta post-naturale, ma gli ecomodernisti invitano a non spaventarsi. Come riporta Preston, per evitare il collasso “non abbiamo scelta se non rendere la Terra un artefatto ben riprogettato”. Umani come compost I riparazionisti sono generalmente insensibili alla preoccupazione per cui l’applicazione dell’ingegneria climatica, anziché sventare la catastrofe ambientale, potrebbe accelerarne l’accadimento. Mettere troppo a fondo le mani nei regimi naturali rimane pur sempre un azzardo, un’ecological roulette dagli esiti mai compiutamente anticipabili. L’ambientalismo interventista degli ecomodernisti rimane così viziato da una fede cieca nelle potenzialità risolutorie ed emancipatorie della tecnologia, sempre suscettibile di un pieno controllo umano e di un miglioramento indefinito. Nel pericolo di un disastro ambientale incombente, il “catastrofismo illuminato” del pensiero riparazionista finisce per non rilevare alcun problema di ordine etico-politico, ma esclusivamente tecnico. E qualsiasi problema tecnico può essere risolto con un sovrappiù di innovazione tecnologica, quell’esplosione di capacità e conoscenze che alla fine salverà la razza. C’è del pensiero magico di fondo in questo modo di accostarsi al collasso ambientale armati soltanto di una “fede comica nella tecnologia riparatrice”, come giudica Donna Haraway in Chthulucene. Haraway rifugge il tecno-trionfalismo dei collassonauti riparazionisti prediligendo la via del “compostismo”, uno dei tanti neologismi da lei coniati con cui si indica l’approccio biofilo e transpecista che colloca gli umani alla stregua degli altri esseri viventi, tutti ugualmente indirizzati a diventare compost nel perenne ciclo della materia organica. L’umanità descritta da Haraway non ambisce a elevarsi al di sopra della natura intervenendo sulle sue leggi, piuttosto accetta di decomporsi sommessamente al suo interno come ogni altra forma di vita. Per marcare lo stacco dagli ecomodernisti, la filosofa ecofemminista scolpisce frasi come questa: “siamo compost, non postumani: abitiamo l’humusità, non l’umanità. Filosoficamente e materialmente, io sono una compostista, non una postumanista”. Più di recente un altro teorico compostista, Bruno Latour, ha scritto che per salvarci dal collasso ambientale dovremmo tutti “atterrare”, nel senso letterale di “toccare terra”, tornare all’humus che è ogni umano. Haraway chiude il suo saggio con un esercizio di fabula speculativa in cui immagina delle comunità di collassonauti compostisti abitare nei secoli venturi un pianeta “infetto” e flagellato dagli sconvolgimenti climatici. Le comunità del compost si ritroveranno a vivere nel disordine ecologico lasciato dalla modernità capitalistica e, al pari delle altre tribù del collasso, intendono rimanere a contatto col problema di vivere in un pianeta danneggiato, ma in maniera diversa. Prendono le distanze dai doomer, che danno il mondo per spacciato predicando la dottrina del “è troppo tardi, non ha alcun senso cercare di migliorare le cose adesso”. Ma si allontanano anche dal migliorismo miope degli ecomodernisti, sostituendo alla tracotanza dei technological fixes l’umile ambizione di “una guarigione parziale, una riabilitazione modesta, […] una rinascita ancora possibile pur in tempi difficili”. Più che riparazione, qui è in gioco il “rimedio ecologico” per il ripristino dei refugia, luoghi in cui la vita possa essere sostenuta con alti livelli di biodiversità. I compostisti immaginati da Haraway genereranno meno prole per non sovraccaricare demograficamente la Terra, la natalità diventerà un fatto collettivo e non solo familiare. Contro l’escapismo solipsistico e il mito dell’autoprotezione radicale dei survivalisti, i compostisti immaginano invece quella che Haraway chiama “simpoiesi”, il “con-divenire” di umani e “specie compagne” per “un recupero parziale che ci permetta di andare avanti insieme”. Per sopravvivere al collasso climatico e viverne al di là, gli umani dovranno sentirsi “responso-abili” nei confronti dei non-umani, sciogliere i vincoli di genealogia, consanguineità ed eredità di parentela instaurando rapporti di cura nei confronti di tutto ciò che vive. Haraway parla al riguardo di “parentinnovazione” e oddkin: legami non riproduttivi, imprevisti e simbiotici di cooperazione con esseri al di fuori della razza umana, alleanze non-familistiche e non-speciste, assemblaggi naturalculturali che permettano a tutti i “terreni” (Latour) di convivere anche nelle circostanze più aspre del disordine ambientale. I compostisti immaginati da Haraway genereranno meno prole per non sovraccaricare demograficamente la Terra, la natalità diventerà per loro un fatto collettivo e non più (solo) familiare, tratteranno ogni vivente con lo stesso impegno emotivo oggi riservato ai rapporti di parentela. La sacralità della vita sarà estesa dall’umano all’oltre-che-umano, si piangeranno le morti degli altri esseri viventi e si avvertirà “dolore ecologico” per tutte le estinzioni irreversibili, comprese quelle dei ghiacciai. L’ecologia politica immaginata da Haraway, né desolante né consolatoria, è molto lontana da un certo ambientalismo retorico e nostalgico che vede nella natura una condizione di purezza primordiale da preservare. Le comunità del compost non credono nelle utopie, non fanno tabula rasa della storia per ricostruire il mondo daccapo. Praticano l’arte di vivere in un pianeta danneggiato, rigenerano la vita a partire dalle rovine del capitalismo, s’insediano nei luoghi perturbati dalle attività umane per guarirli senza l’illusione di poterli riparare. Abitano mondi indeterminati e precari, al tempo stesso dentro e fuori il sistema capitalistico, o meglio ai suoi confini. Ne sono esempio i raccoglitori di funghi matsutake descritti da un’altra illustre compostista, Anna Tsing, che nel suo Il fungo alla fine del mondo (del 2015, in uscita in Italia per Keller ad aprile) parla di una “terza natura”, né incontaminata né sfigurata irreparabilmente, ma che nonostante le devastazioni antropogeniche riesce ancora a rendere possibile la vita.