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Le tribù del collasso 4. Tra i primi firmatari del Manifesto ecomodernista spicca il nome di Michael Shellenberger, fondatore del Breakthrough Institute – centro di ricerca internazionale che promuove soluzioni tecnologiche ai problemi ambientali – e fresco autore di Apocalypse Never, sottotitolo: Why Environmental Alarmism Hurts Us All. Nel suo libro Shellenberger si scaglia contro l’ambientalismo apocalittico di quanti professano la decrescita, la re-ruralizzazione, l’agricoltura biologica e persino la transizione verso fonti rinnovabili di energia. La tesi degli ecomodernisti è che solo l’energia nucleare abbia i requisiti di scalabilità e intensità sufficienti a soddisfare il fabbisogno mondiale ed evitare il collasso ambientale. Dopotutto, spiega Shellenberger, nella storia dell’umanità è sempre successo che passassimo da fonti di minore a fonti di maggiore densità energetica: l’escalation è legno, carbone, petrolio, gas e infine uranio. In quest’ottica, eterodossa e scientificamente discutibile, tornare alle fonti energeticamente diluite come vento e sole sarebbe una catastrofe perché si rederebbe necessario un maggior consumo di suolo a parità di energia prodotta. Di “rinascimento nucleare” tratta anche James Lovelock nella sua ultima fatica, Novacene. “La mia linea di pensiero è più vicina agli ecomodernisti che ai loro oppositori”, dichiara fin da subito lo scienziato centenario e fautore dell’ipotesi Gaïa – la biosfera terrestre come un unico super-organismo capace di autoregolarsi, adattandosi ai fattori che ne turbano la condizione di equilibrio e mantenendo un clima terrestre favorevole alla vita. In Novacene, il riparazionista Lovelock alza la posta e parla di “Gaïa 2.0”, un pianeta di là da venire e regolato da forme di vita non più organica, ma elettronica: “ci stiamo avvicinando al momento in cui i nostri artefatti tecnologici, meccanici e biologici riusciranno a far funzionare il Sistema Terra da soli”. L’orizzonte cui allude Lovelock è quello di impiegare l’intelligenza artificiale nella mitigazione dell’impatto ambientale e nella regolazione dei regimi climatici. Un’intuizione che non poggia sul nulla, ma su decine di esperimenti scientifici in corso d’opera. I riparazionisti sono dell’idea ci sia ancora tempo per invertire il corso dei cambiamenti climatici e restaurare tecnologicamente le condizioni planetarie. In un lungo paper di fine 2019 dal titolo Tackling Climate Change with Machine Learning, un pool internazionale di ricercatori stilava una rassegna esaustiva dei progetti per l’applicazione dell’intelligenza artificiale al contrasto dei cambiamenti climatici. L’elenco è fitto e potenzialmente sterminato: sistemi di previsione delle calamità naturali, app per misurare l’impronta ecologica individuale e le emissioni domestiche, satelliti per mappare la deforestazione, sensori per la gestione delle smart grid, sistemi di ottimizzazione dei trasporti, agricoltura di precisione, tecnologie intelligenti per il sequestro dell’anidride carbonica, modelli automatici di finanza “verde”, simulazioni virtuali di interventi di geoingegneria. Basta poi una rapida consultazione della letteratura più recente e si scoprono altri progetti analoghi come Destination Earth dell’Unione Europea, TRACE ed Environmental Insights Explorer di Google, Landsat della NASA, AI for Earth di Microsoft e Green Horizon di IBM. I giganti tecnologici sono insomma già tutti in pista nell’ambiziosa corsa a progettare “esseri inorganici”, come li chiama Lovelock, più abili di noi umani a regolare la temperatura terrestre e dunque a sventare il collasso ambientale – sempre a patto che non si valichi la temperatura-soglia dei 47° C: “se questa venisse superata, perfino un’intelligenza basata sul silicio si troverebbe ad affrontare un ambiente impossibile”. Tecno-ottimista incrollabilmente fedele alla legge di Moore, Lovelock è certo che i progressi dell’intelligenza artificiale nella mitigazione del riscaldamento globale verranno compiuti dapprima in pochi anni, poi in pochi mesi, e alla fine in pochi secondi. Nel suo libro ambizioso e visionario immagina esseri telepatici a forma di sfere che trasformeranno l’energia solare direttamente in informazione e compiranno calcoli a una velocità inconcepibile per gli esseri umani, con il solo scopo di raffreddare il pianeta e di riparare i guasti climatici che abbiamo causato. “Potremmo fare cose simili già adesso”, ammette Lovelock, “ma i cyborg le faranno presumibilmente meglio, con una maggiore accuratezza e capacità di controllo”. Le forme di intelligenza artificiale collaboreranno necessariamente con gli umani, su questo lo scienziato non ha dubbi. Saranno la nemesi che riscatterà qualunque danno abbiamo mai inflitto alla biosfera prolungando ad oltranza la presenza della vita organica sulla Terra. In aperta contraddizione con le sue tesi passate, la proposta di Lovelock di delegare le sorti climatiche della Terra a sistemi di intelligenza artificiale collide con la teorizzazione di una biosfera terrestre in grado di autoregolarsi. Lo spiega bene anche il filosofo della scienza Cristopher Preston nel suo ultimo L’era sintetica, un libro che ha il pregio di chiarire quale sia l’ontologia del pensiero ecomodernista. Secondo Preston, a muovere i riparazionisti è la convinzione che l’equilibrio naturale sia soltanto un mito, che la natura pristina e incontaminata non esista più e sia dunque moralmente accettabile ogni tentativo umano di rimodellarla. “Le nostre azioni hanno compromesso molto tempo fa l’integrità e l’indipendenza dell’atmosfera”, scrive Preston per giustificare il carattere inevitabile e necessario degli interventi correttivi a una natura dipinta come già irrimediabilmente corrotta. “La nostra sola speranza per riassestare le cose è quella di spingerci a fondo in questa direzione e fare ingegneria inversa dell’atmosfera”. Per i collassonauti riparazionisti è giunto il tempo di seppellire definitivamente i fantasmi di Leopold, Thoreau, Humbold e degli altri “ambientalisti pastorali” che di fronte a una natura perturbata e guasta erano soliti anteporre le meditazioni filosofiche e spirituali alle soluzioni tecnologiche. L’ambientalismo ecomodernista è invece meno una questione di conservazione della natura e più di riprogettazione, per esempio facilitando l’adattamento delle specie animali e vegetali ai cambiamenti climatici per mezzo dell’evoluzione assistita. In questa prospettiva, opinabile e irta di falle, spetterebbe ovviamente alle tecno-élite ecomoderniste decidere fino a che punto intervenire.