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Le tribù del collasso 3. Le visioni apocalittiche di molti super-ricchi della Silicon Valley alla mescolano transumanesimo, survivalismo e darwinismo sociale. Assieme al compagno in affari Elon Musk, Thiel compare anche nel panel di super-finanziatori del “piano B” che intende fare di Marte una off-world colony, un pianeta di “riserva” per la diaspora umana qualora i cambiamenti climatici dovessero rendere inabitabile la Terra – Nuova Zelanda compresa. O’Connell ricorda che, anche nel peggiore degli scenari oggi immaginabili, le condizioni di vita sulla Terra rimarrebbero comunque meno ostili di quelle di Marte, sprovvisto di atmosfera e con un livello di radiazioni cento volte superiore. La fantasia escapista, classista e antisociale dei survivalisti affluenti, pronti nel caso ad abbandonare il pianeta prima che precipiti nel disordine, riflette così un ottimismo irragionevole e un entusiasmo acritico per le potenzialità della tecnologia: come se, anziché alla fine della storia, ci trovassimo al suo inizio, armati di una scienza che può portarci ovunque nell’universo. In opera c’è il solito mito della frontiera e della wilderness da conquistare, la retorica dello spirito umano che occupa le terre vergini e marca un nuovo punto zero della storia su cui rifondare la civiltà. L’immagine esecrabile di questi facoltosi expat che acquisiscono acri di terra in Nuova Zelanda e coltivano il sogno di allestire un’oasi marziana cozza tremendamente con il luogo comune del survivalista indigente e frugale, dallo stile di vita retrocesso agli standard del contadino medievale. Eppure, come spiega lo stesso O’Connell, i transfughi plurimiliardari costituiscono soltanto una frazione minoritaria della subcultura survivalista, più largamente rappresentata dalla piccola borghesia americana, bianca e cattolica. È in particolare a questa, alla sua dilagante paranoia per la fine del mondo, che si rivolge il mercato dei rifugi anti-apocalittici sempre più diffusi negli Stati Uniti. Talvolta sono silos missilistici dismessi e riconvertiti alla meno peggio; più spesso bunker anti-fallout costruiti negli anni tra la presidenza Kennedy e quella Regan, quando in piena Guerra Fredda si viveva sull’orlo di un’apocalisse nucleare e si registrò un vero e proprio doom boom dei rifugi antiatomici privati. In altri casi ancora si tratta di complessi residenziali sotterranei, fortificati e dotati di tutti i comfort borghesi, progettati dal nulla con impianti energetici indipendenti, sistemi di filtraggio dell’aria e purificazione dell’acqua, magazzini per le scorte di cibo e orti per l’agricoltura idroponica. La richiesta di questi rifugi anti-apocalittici si è impennata l’anno scorso, al diffondersi della pandemia di COVID-19. Per molti prepsteaders – altro appellativo col quale vengono definiti i survivalisti della classe media – l’ansia indotta da minacce sanitarie, economiche e politico-sociali si sovrappone infatti alla paura del collasso climatico, col bunker privato che finisce per essere la soluzione a tutti i mali, una sorta di assicurazione sulla vita tua e della tua famiglia, qualunque cosa succeda. Si è parlato al riguardo di “capitalismo della cospirazione”, la mercificazione della paura di un collasso imminente, il business di luoghi iper-protetti che diano ai prepper l’illusione del controllo e dell’autosufficienza. A detta di O’Connell c’è in gioco anche l’apoteosi patriarcale del maschio alfa che mette al sicuro la prole da un ipotetico ritorno allo stato di natura, un ideale di mascolinità che feticizza la famiglia a fortezza contro i pericoli del mondo. I survivalisti sono in genere convinti che l’interdipendenza non protegga ma anzi esponga agli esiti peggiori del collasso: a motivarli è una tensione egoistica alla sopravvivenza che non guarda in faccia la sofferenza degli “altri” – i deboli, gli affamati, gli impreparati. Per O’Connell, al contrario, “[sono] proprio le persone più oppresse e marginalizzate dalla società a capire fino in fondo cosa [significhi] vivere in un mondo post-apocalittico, e [sono] quindi le più preparate a farlo”. Il mito dell’indipendenza e dell’autosufficienza dei prepper si scontra poi col carattere intrinsecamente precario e velleitario di ogni tentativo di farsi trovare pronti alla catastrofe: da soli “possiamo sopravvivere qualche giorno, qualche settimana, ma poi?”, si chiedono Servigne, Chapelle e Stevens nel loro Un’altra fine del mondo è possibile. “Come possiamo mangiare quando l’approvvigionamento viene interrotto? Come possiamo bere acqua potabile se il rubinetto non funziona più? Come possiamo riscaldare senza combustibile, gas naturale o elettricità?”. Quello di cui molte comunità di survivalisti non si curano è come conservare la propria umanità dopo un eventuale collasso, quando l’istinto dominante sarà la sopravvivenza. Per i tre collassologi, l’euforia organizzativa dei prepper si esaurisce in aspetti di natura materiale: si ferma cioè ai primi due gradini della piramide dei bisogni di Maslow, fisiologia e sicurezza. Ma l’equipaggiamento materiale non sarà in ogni caso sufficiente a vivere in un pianeta incerto, c’è da attrezzarsi anche politicamente e psicologicamente, per non dire spiritualmente ed emotivamente. “Sarà necessario forgiare una morale d’acciaio (o piuttosto di giunco, dipende) per resistere alle tempeste future”: non si tratta soltanto di avere cibo di scorta e una solida garitta sotto la quale proteggersi dalle intemperie, ma anche di conservare l’umanità quando l’istinto dominante sarà quello di curarsi esclusivamente della propria sopravvivenza. In un mondo in cui i cambiamenti climatici potrebbero rendere ogni abitazione privata un potenziale bunker anti-apocalittico, “dobbiamo chiederci, oltre a cosa possiamo fare, chi possiamo essere”. Restaurare il pianeta Se per i survivalisti non resta altro da fare che prepararsi materialmente al collasso inevitabile, i riparazionisti sono invece dell’idea ci sia ancora tempo per invertire il corso dei cambiamenti climatici e restaurare tecnologicamente le condizioni planetarie utili allo sviluppo e alla prosperità della specie. Il loro motto è: se non puoi cambiare le cose individualmente o politicamente, puoi sempre farlo tecnicamente. Per questo sono stati chiamati alternativamente “ambientalisti positivi”, “transizionalisti ottimisti”, “tecno-ottismiti”, “ecopragmatisti” o “ecomodernisti”, dal titolo del documento che per primo ne ha tematizzato l’ethos, l’Ecomodernist Manifesto, reso pubblico nel 2015. Lì si può leggere che gli esseri umani hanno il dovere di allentare il loro impatto ambientale, non tanto imponendo degli ininfluenti limiti alla crescita e al consumo – come sostengono certi “ecologisti negativi” sin dagli anni Settanta – quanto attraverso radicali trasformazioni tecnologiche. La soluzione al riscaldamento globale è nella liberazione, non nella repressione del progresso tecnico della specie. La sfida che si pongono gli ecomodernisti è quella di realizzare il “disaccoppiamento tra sviluppo sociale e impatto ambientale” con l’intensificazione tecnologica di molte attività umane – urbanizzazione, acquacoltura, desalinizzazione… – per diminuire l’utilizzo antropico di suolo, contenere le pressioni sulla biosfera e rendere meno distruttiva la nostra dipendenza dalle risorse naturali. Questo processo di disaccoppiamento, scrivono gli autori del Manifesto, “scardina l’idea comune che la presenza dell’uomo primitivo sul pianeta Terra fosse più innocua di quella del suo omologo moderno”. A parere degli ecomodernisti, le tecnologie ancestrali avevano un’impronta ambientale molto più rovinosa delle tecnologie in uso nelle società contemporanee. Ma nella prospettiva della “modernizzazione ecologica” non è nemmeno vero che le motivazioni estetiche e spirituali inducano ad avere cura della natura più dei convincimenti utilitaristici.