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Le tribù del collasso 2. Secondo Danowski e Viveiros de Castro, con il collasso climatico gli umani saranno chiamati a vivere in un ambiente impoverito e squallido, un deserto ecologico e un inferno sociologico. A dispetto di ogni entusiasmo accelerazionista per il collasso della civiltà, ogni utopia eremitica o sogno campestre post-apocalittico, siamo alle soglie di un cambiamento catastrofico delle condizioni materiali di esistenza della specie. I più fatalisti profetizzano che il crollo degli ecosistemi porterà l’umanità sull’orlo dell’estinzione – un po’ come avvenne 74 mila anni fa, quando a una portentosa eruzione del Toba seguì un inverno vulcanico che ridusse drasticamente la popolazione umana sul pianeta, forse fino a poche migliaia di individui. Secondo Danowski e Viveiros de Castro, il collasso climatico non consisterà in un annientamento totale della specie, un mondo-senza-noi, ma più probabilmente in un noi-senza-più-il-mondo: gli umani chiamati a vivere in “un ambiente impoverito e squallido, un deserto ecologico e un inferno sociologico”. Lo scrittore Rob Nixon ha parlato al riguardo di slow violence, il lento sprofondamento nella barbarie, la graduale regressione verso un’esistenza materialmente e moralmente degradata a cui lo storico Christof Mauch, meno disfattista, contrappone l’etica della slow hope, la resistenza strenua anche se fallibile all’ansia climatica e all’estinzionismo senza scappatoie dei doomer, gli apocalittici ormai rassegnati all’ineluttabilità e irrimediabilità del collasso ambientale. Il nichilismo apocalittico dei doomer è soltanto una delle reazioni umane possibili. Diversa è quella degli spettatori agnostici, increduli o negazionisti che si risolvono a condurre un’esistenza “normale”, come se la fine del mondo non fosse già in corso e l’orizzonte catastrofico non avesse ancora cominciato a interferire con le loro scelte di vita – l’acquisto di una casa non troppo vicino alla costa, la decisione di non avere figli in un mondo che potrebbe anche diventare invivibile… E poi ci sono le comunità di individui che, al contrario, si stanno adoperando fattivamente per adattarsi al futuro collasso o provare a mitigarne gli effetti: la risolutezza organizzativa di questi gruppi segnala una presa di coscienza della catastrofe climatica come possibilità reale, una circostanza consistente rispetto alla quale non è più possibile avere soltanto una posizione astratta. A loro, a queste subculture o “tribù” del collasso, guardano due libri recenti e complementari: Appunti da un’Apocalisse di Mark O’Connell e Un’altra fine del mondo è possibile dei “collassologi” Gauthier Chapelle, Pablo Servigne e Raphaël Stevens. Il primo è un lungo reportage sugli hot-spot del collasso ambientale e sulle comunità di prepper, i “survivalisti” che si preparano alla catastrofe annunciata rifugiandosi in bunker anti-apocalittici superattrezzati. Il secondo un saggio a metà strada tra un manuale di sopravvivenza e una teoria scientifica del collasso che attinge a piene mani dai saperi dell’ecopsicologia, della psicologia delle catastrofi e delle altre survival sciences. Il merito comune a entrambi è quello di mostrare quanto sia ormai variegato l’universo dei climate collapsers, o “collassonauti”: quegli individui che accettano la prospettiva della crisi ambientale in maniera razionale e consapevole, navigano nell’incertezza presente e provano a rimanere a galla, adeguando già da oggi le loro vite al collasso che sarà. Non più minoranze eccentriche e sparute di fanatici ambientalisti, ma realtà in forte espansione come quella dei prepper, appunto, o quella degli “zadisti”, attivisti della terra che all’orizzonte del collasso oppongono la resistenza deep green con la mobilitazione collettiva in difesa degli ecosistemi. “Tra chi è pronto all’azione e chi rimane in una dimensione di negazione, ritroviamo tutta una serie di persone in difficoltà”, precisano Servigne, Stevens e Chapelle. Al loro inventario assortito di comunità del collasso potremmo ascrivere anche i “riparazionisti”, apologeti dei technological fixes con cui intendono rimettere a posto i regimi climatici, e i “compostisti”, le nuove comunità di terrestri che la filosofa Donna Haraway immagina abitare un pianeta “infetto” e per molti versi irrestaurabile. Modi diversi di riconoscere e di approcciare il collasso ambientale, di viverlo e di sopravviverlo, con attitudini variabili e scelte di vita alternative di fronte alla minaccia della crisi climatica. A dar credito ai tre collassologi di Un’altra fine del mondo è possibile, si tratterebbe per noi tutti di decidere da quale parte intendiamo stare, quale tipo di atteggiamento mentale siamo disposti a fare nostro al cospetto della catastrofe che avanza: “se il mondo dovesse crollare, con quale collettività vorreste passare il resto della vostra vita?”. Prepararsi al collasso. Nel suo Appunti da un’Apocalisse, Mark O’Connell si pone grosso modo la stessa domanda: “come vivere tenendo conto della distinta possibilità che la nostra specie, la nostra civiltà, sia già spacciata? Dovremmo semplicemente ignorare la fine del mondo?”. O’Connell comincia la sua indagine sui prepper che si equipaggiano in vista del collasso ambientale quando sta ancora ultimando Essere una macchina, il suo reportage su transumanisti, biohacker, crionauti, singolaristi e altri tecno-utopisti con “la generale ambizione di sconfiggere la morte” trascendendo tecnologicamente i limiti della fisiologia umana. Con sua sorpresa, O’Connell finisce per rintracciare nell’universo survivalista alcuni dei personaggi incontrati in quello transumanista. Un nome per tutti: Peter Thiel, cofondatore di PayPall e plurimiliardario finanziatore di Facebook, oggi tra i maggiori investitori di progetti per la bioestensione e fervido promotore dei rifugi di lusso per survivalisti danarosi. Come spiega O’Connell, il “tecno-millenarismo” di molti super-ricchi della Silicon Valley alla Peter Thiel, che mescola transumanesimo e survivalismo, è solo apparentemente contraddittorio: a risolvere il paradosso è la magnificazione del darwinismo sociale, le élite cognitive che prima, più e meglio degli altri intendono sopravvivere alla catastrofe ambientale e magari vivere in eterno. In questo brutale scenario da survival of the richest, Thiel & Co praticano il survivalismo nella sua variante luxury: fondano resort e gated communities in città galleggianti off-shore o si ritirano in compound isolati, esclusivi, supersorvegliati. Nei suoi “pellegrinaggi perversi” in giro per il mondo, O’Connell li insegue fino in Nuova Zelanda: un’isola-rifugio benestante e politicamente stabile, una terra remota ma non troppo lontana dalla California, fertile, scarsamente popolata, con aria fresca, acqua pulita, amenità naturali e una cintura di insuperabili falesie che la mettono al riparo dall’innalzamento del livello dei mari e pure dall’approdo disperato di migranti climatici. Negli anni, questa “arca di Noè degli stati-nazione”, una sorta di moderna Ararat come la definisce O’Connell, si è guadagnata la fama (in realtà idealizzata) di essere la destinazione ottimale per i plutocrati che intendono anticipare il collasso ambientale – o evitarsi la seccatura di altri disordini politici, più o meno catastrofici, che minaccino il loro privilegio.