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Le tribù del collasso 1. SCIENZE. ALESSIO GIACOMETTI . 12 FEBBRAIO 2021. Le tribù del collasso. Una guida bibliografica a survivalisti, doomer, tecno-ottimisti, compostisti e nuove umanità alla fine del mondo. Alessio Giacometti è nato a Padova nel 1992 e ha una laurea in Sociologia. Suoi testi sono stati pubblicati su Il Tascabile, la newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste. Fino allo scorso inverno e per più di settecento anni, il possente e venerando ghiacciaio Okjökull ha dominato la cima del vulcano Ok, in Islanda. Negli ultimi tempi lunghe e profonde crepe si erano aperte come piaghe sul suo corpo secolare, ammorbato da un’aria divenuta insopportabilmente acida e calda. Quelle membra un tempo compatte, maestose, si erano decomposte al susseguirsi di estati sempre più lunghe. Quando, alla fine del 2019, di Okjökull non sono rimasti che dischi di ghiaccio infissi nel fango, gli abitanti del limitrofo villaggio di Borgarfjordur hanno deciso di risalire il vulcano per celebrare le esequie del gigante scomparso. Hanno inciso una targa di metallo – con su scritto: “A letter to the future” e “415ppm CO2” – e hanno scelto una roccia su cui apporla al centro del cratere rimasto sgombro. Si è trattato probabilmente del primo rito funebre in onore di un ghiacciaio estinto. Ma si potrebbero raccontare altre storie ed evocare immagini altrettanto eloquenti del collasso ecologico che incombe: Milne, l’ultima piattaforma di ghiaccio intatta del Canada, risalente a quattromila anni fa, è collassata l’estate scorsa per il troppo caldo, poche settimane prima che i cieli della California si tingessero di un arancione sulfureo e surreale, nell’anno degli incendi record. Ovunque, nel mondo, i grandi alberi antichi si stanno disseccando a un ritmo impressionante, mai registrato prima, e a causa del riscaldamento delle acque gli invertebrati del benthos hanno lentamente cominciato a migrare in cerca di correnti più fresche, ma verso Sud, nella direzione sbagliata. L’aumento delle temperature medie sta anche assottigliando in maniera preoccupante lo spessore delle nuvole, scombussolando i cicli riproduttivi di molte specie animali e alterando la pigmentazione dei fiori, col pericolo che risultino invisibili agli impollinatori. È oltremodo difficile provare a dare un nome a quello che succede, alle imponderabili implicazioni del clima che si scalda, ma, a volerli riconoscere, i segnali ricorsivi di una crisi imminente ci sono già tutti. Qualche anno fa, in Esiste un mondo a venire?, Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro facevano esercizio di accettazione e invitavano anzitempo a guardarsi intorno, più che avanti: in larga parte il collasso degli ecosistemi “è già iniziato e non è reversibile, può al massimo diminuire la propria accelerazione”, scrivevano. Il futuro è arrivato, avvertivano la filosofa e l’antropologo, che si sia pronti o no ci siamo tutti immersi. Stiamo oltrepassando i punti di non ritorno uno dopo l’altro, sempre più velocemente, con conseguenze per la nostra vita che saranno immense e imprevedibili. In molti si diffonde la sensazione che, non più eccezione, le catastrofi naturali stiano rapidamente diventando la nuova norma. È come se vivessimo intrappolati a metà tra il sentimento di un collasso ormai in corso e la paura di riconoscerlo appieno. Nel loro saggio, “attraverso le mitologie attuali sulla fine del mondo e dell’umanità”, Danowski e Viveiros de Castro premettevano che l’idea della civiltà spazzata via da un cataclisma improvviso e definitivo è datata quanto il mondo: ne erano intrise già molte cosmologie antiche, dal Ragnarǫk norreno all’Armageddon giudaico-cristiano. Eppure la sua presenza nella cultura contemporanea si è intensificata notevolmente negli ultimi anni – non da ultimo per ragioni prosaicamente commerciali, legate cioè alle forme di intrattenimento dominanti nell’industria culturale: è diventato un argomento di moda. Quando pensiamo alla fine del mondo per come lo conosciamo, si attiva oggi il repertorio dei futuri collassati immaginati dalla più recente fantascienza distopica e (post)apocalittica, ma si tratta spesso di simulazioni fortemente stereotipate e caricaturali: a decretare l’eventuale tracollo dell’umanità, non sarà uno stravolgimento unico e repentino come una crisi nucleare, una pandemia globale, una rivolta delle macchine o un’invasione aliena; semmai il progressivo accumularsi di catastrofi ambientali locali che faranno regredire gli standard di vita degli esseri umani e metteranno in crisi l’ordine sociale. Non una terza guerra mondiale o un attentato bioterroristico, una congiura di hacker che paralizzerà il mondo o il suo impatto ominoso con un asteroide smisurato, ma istanti ripetuti e intermittenti di un lento collasso dei regimi ambientali. Il riscaldamento globale come accumulazione di “piccole apocalissi” o come “apocalisse in slow motion”, hanno scritto alcuni. Più che una deflagrazione di luce, una decadenza buia e incrementale.