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Ormai s’era adirata, non erano spiegazioni che voleva, voleva una mia reazione, un segno di calore da parte mia, qualcosa che bruciasse la distanza che ci separava. Ma le mie risposte s’erano fatte cautelative, querimoniose, rabbonitrici. – No, vedi, Claudia, non fare così, t’assicuro, ti supplico, Claudia, io… – Nella stanza del sottufficiale si riaccese la luce. Il mio discorso d’amore divenne un pigolio, a labbra schiacciate sul microfono. Nel cortile gli sguatteri rotolavano i fusti della birra. La signorina Margariti dal buio delle sue stanze attaccò un chiacchierio interrotto da brevi scoppi di risa, come se avesse visite. Il coinquilino scoppiò in un’imprecazione meridionale. Io ero a piedi nudi sulle piastrelle del corridoio e dall’altro capo del filo la voce appassionata di Claudia mi tendeva le mani e io cercavo di correrle incontro con la mia balbuzie ma ogni volta che stavamo per gettare un ponte tra noi dopo un momento andava in briciole e l’urto delle cose stritolava e smentiva a una a una tutte le parole d’amore.Da quella volta, il telefono prese a squillare nelle più diverse ore del giorno e della notte, e la voce di Claudia a irrompere fulva e screziata nell’angusto corridoio, con il balzo ignaro d’un leopardo che non sa di gettarsi in una trappola, e, siccome non lo sa, d’un altro balzo come se n’è venuto trova il varco per fuggire: e non s’è accorto di niente. E io, tra sofferenza e amore e gioia e crudeltà, la vedevo mescolarsi a questo scenario di bruttezza e desolazione, all’altoparlante della «Urbano Rattazzi» che scandiva: «Una di cappelletti in brodo», alle scodelle sporche nell’acquaio della signorina Margariti, e mi pareva che ormai anche la sua immagine dovesse restarne marcata. Ma no, correva via sul filo intatta, senz’accorgersi di nulla, e io restavo ogni volta solo col vuoto della sua assenza. Alle volte Claudia era allegra, spensierata, rideva, diceva cose incoerenti per prendermi in giro, e anch’io finivo per partecipare alla sua allegria, ma allora il cortile, la polvere mi rattristavano di più perché m’era venuta la tentazione di pensare che la vita potesse essere diversa. Alle volte invece Claudia era in preda a un’ansia febbrile e quest’ansia allora si sommava all’aspetto dei luoghi dove abitavo, al mio lavoro di redattore de «La Purificazione», e non riuscivo a liberarmene, vivevo nell’attesa d’una nuova telefonata più drammatica ancora che mi svegliasse nel cuore della notte, e quando invece la sua voce mi arrivava inaspettatamente diversa, gaia o languida, come se non ricordasse nemmeno l’angoscia della sera prima, io, ancor prima che liberato, mi sentivo smarrito, spaesato. – Ma ho sentito bene? È da Taormina che telefoni? – Sì, sono qui con amici, è così bello, vieni subito, in aereo! Claudia telefonava sempre da città diverse, e ogni volta, fosse in stato di angoscia o di gioia di vivere, esigeva che la raggiungessi immediatamente per dividere con lei questo suo stato. Io prendevo a darle ogni volta una spiegazione minuziosa del perché mi era assolutamente impossibile mettermi in viaggio, ma non mi riusciva di proseguire perché Claudia senza starmi a sentire era già entrata in un altro giro di discorsi, di solito una requisitoria contro di me, oppure anche un imprevedibile elogio, per qualche espressione che senza badare avevo usato e che lei aveva trovato abominevole o adorabile. Quando già il tempo dell’ultima comunicazione era scaduto e le centraliniste diurne o gli impiegati del servizio notturno dicevano: – Dobbiamo interrompere, – Claudia lanciava un: – A che ora arrivi allora? – come se tutto fosse inteso, e io rispondevo farfugliando, e si finiva per rimandare gli ultimi accordi a un’altra telefonata che avrei dovuto farle o che lei mi avrebbe fatto. Ero sicuro che Claudia avrebbe intanto cambiato tutti i suoi programmi e l’urgenza del mio viaggio si sarebbe riproposta sì, ma in condizioni diverse che avrebbero giustificato nuovi rinvii; eppure mi restava dentro una specie di rimorso, che la mia impossibilità di partire non era così assoluta, che potevo per esempio chiedere un anticipo sullo stipendio al mese venturo e un permesso per assentarmi tre o quattro giorni con qualche scusa; e in queste esitazioni mi rodevo. La signorina Margariti non sentiva niente. Se attraversando il corridoio mi vedeva al telefono, mi salutava con un segno del capo, ignara di quali tempeste mi agitavano. Il coinquilino no. Dalla sua camera sentiva tutto ed era obbligato ad applicare il suo intuito poliziesco a ogni mio trasalimento. Per fortuna non era quasi mai in casa, e perciò certe mie telefonate giungevano a essere addirittura spigliate, disinvolte, e per poco che la disposizione di Claudia me lo consentisse riuscivamo a entrare in un clima di corrispondenza amorosa per cui ogni parola acquistava un calore, una intimità, una risonanza interiore. Altre volte invece lei era ottimamente disposta e io invece ero bloccato, non rispondevo che a monosillabi, a frasi reticenti ed evasive: c’era il sottufficiale dietro l’uscio, a un metro di distanza da me; una volta socchiuse, affacciò la faccia baffuta e nera, mi scrutò. Era un ometto, devo dire, che in altra occasione non mi avrebbe fatto nessuna impressione: ma lì, in piena notte, vederci per la prima volta in faccia, in quell’alloggio da poveri diavoli, io che facevo e ricevevo interurbane amorose di mezz’ora, lui che smontava dal servizio, tutti e due in pigiama, è certo che ci odiammo. Spesso nelle conversazioni di Claudia entravano nomi illustri, la gente che frequentava lei. Io, primo, non conosco nessuno; secondo, non posso soffrire d’attirare l’attenzione; così se proprio dovevo risponderle cercavo di non far nomi, d’usare delle perifrasi, e lei non capiva perché e ci s’arrabbiava. Dalla politica poi mi sono sempre tenuto lontano, appunto perché non mi è piaciuto mai mettermi in vista; adesso poi dipendevo da un ente parastatale e m’ero fissato la regola di non saper nulla né di questi né di quelli; e Claudia chissà cosa le frulla una sera, e mi chiede di certi deputati. Bisognava darle una risposta qualsiasi, lì, su due piedi, col sottufficiale alla porta. – Il primo che hai detto, certo, il primo… – Chi? Chi vuoi dire? – Quello lì, sì, quello più grosso, no, più piccolo… L’amavo, insomma. Ed ero infelice. Ma come lei avrebbe mai potuto capire questa mia infelicità? Cisono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere.