Read Aloud the Text Content
This audio was created by Woord's Text to Speech service by content creators from all around the world.
Text Content or SSML code:
Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre. Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS, situato accanto al campo. Non saprei dire se per pura callosità, o se non invece perché, per la sua origine, quello era materiale da calpestare. Non mi illudo di aver dato fondo alla questione, né di aver dimostrato che la crudeltà inutile sia stata retaggio esclusivo del Terzo Reich e conseguenza necessaria delle sue premesse ideologiche; quanto sappiamo, ad esempio, della Cambogia di Pol Pot suggerisce altre spiegazioni, ma la Cambogia è lontana dall’Europa e ne sappiamo poco: come potremmo discuterne? Certo, è stato questo uno dei lineamenti fondamentali dell’hitlerismo, non solo all’interno dei Lager; e mi pare che il suo miglior commento si trovi compendiato in queste due battute ricavate dalla lunga intervista di Gitta Sereny al già citato Franz Stangl, ex comandante di Treblinka (In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975, p. 135): «Visto che li avreste uccisi tutti... che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?», chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita nel carcere di Düsseldorf; e questi risponde: «Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare ciò che facevano». In altre parole: prima di morire, la vittima dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa. É una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo: è l’unica utilità della violenza inutile. Scendere in polemica con uno scomparso è imbarazzante e poco leale, tanto più quando l’assente è un amico potenziale ed un interlocutore privilegiato; però può essere un passo obbligato. Sto parlando di Hans Mayer, alias Jean Améry, il filosofo suicida, e teorico del suicidio, che già ho citato a pagina 14: fra questi due nomi sta tesa la sua vita senza pace e senza ricerca della pace. Era nato a Vienna nel 1912, da una famiglia prevalentemente ebraica, ma assimilata ed integrata nell’Impero Austro-Ungarico. Benché nessuno si fosse convertito al cristianesimo nelle debite forme, a casa sua si festeggiava il Natale attorno all’albero adorno di lustrini; in occasione dei piccoli incidenti domestici sua madre invocava Gesù, Giuseppe e Maria, e la fotografia-ricordo di suo padre, morto al fronte nella prima guerra mondiale, non mostrava un saggio ebreo barbuto, ma un ufficiale nell’uniforme dei Kaiserjäger Tirolesi. Fino ai diciannove anni, Hans non aveva mai sentito dire che esistesse una lingua jiddisch. Si laurea a Vienna in Lettere e Filosofia, non senza qualche scontro con il nascente partito nazionalsocialista: a lui, di essere ebreo non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno alcun peso; la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro quanto basta per farne un nemico del Germanesimo. Un pugno nazista gli rompe un dente, e il giovane intellettuale è fiero della lacuna nella dentatura come se fosse una cicatrice riportata in un duello studentesco. Con le leggi di Norimberga del 1935, e poi con l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, il suo destino è ad una svolta, e il giovane Hans, scettico e pessimista per natura, non si fa illusioni. É abbastanza lucido (Luzidität sarà sempre uno dei suoi vocaboli preferiti) da capire precocemente che ogni ebreo in mani tedesche è «un morto in vacanza, uno da assassinare». Lui, ebreo non si considera: non conosce l’ebraico né la cultura ebraica, non dà ascolto al verbo sionista, religiosamente è un agnostico. Neppure si sente in grado di costruirsi un’identità che non ha: sarebbe una falsificazione, una mascherata. Chi non è nato entro la tradizione ebraica non è un ebreo, e difficilmente può diventarlo: per definizione, una tradizione viene ereditata; è un prodotto dei secoli, non si fabbrica a posteriori. Eppure, per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Per lui i due concetti coinci-dono, chi perde l’una perde anche l’altra, muore spiritualmente: privo di difese, è quindi esposto anche alla morte fisica. Ora, a lui, ed ai molti ebrei tedeschi che come lui avevano creduto nella cultura tedesca, l’identità tedesca viene denegata: dalla propaganda nazista, sulle immonde pagine dello Stürmer di Streicher, l’ebreo viene descritto come un parassita peloso, grasso, dalle gambe storte, dal naso a becco, dalle orecchie a sventola, buono solo a danneggiare gli altri. Tedesco non è, per assioma; anzi, basta la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e perfino le panchine dei parchi. Da questa degradazione, Entwürdigung, è impossibile difendersi. Il mondo intero vi assiste impassibile; gli ebrei tedeschi stessi, quasi tutti, soggiacciono alla prepotenza dello Stato e si sentono obiettivamente degra-dati. Il solo modo per sottrarvisi è paradossale e contraddittorio: accettare il proprio destino, in questo caso l’ebraismo, ed in pari tempo ribellarsi contro la scelta imposta. Per il giovane Hans, ebreo di ritorno, essere ebreo è simultaneamente impossibile ed obbligatorio; la sua spaccatura, che lo seguirà fino alla morte e la provocherà, incomincia di qui. Nega di possedere coraggio fisico, ma non gli manca il coraggio morale: nel 1938 lascia la sua patria «annessa» ed emigra in Belgio. D’ora in avanti sarà Jean Améry, un quasi-anagramma del suo nome originario. Per dignità, non per altro, accetterà l’ebraismo, ma come ebreo «[andrà] per il mondo come un malato di uno di quei morbi che non provocano grandi sofferenze, ma hanno sicuramente esito letale». Lui, il dotto umanista e critico tedesco, si sforza di diventare uno scrittore francese (non ci riuscirà mai), ed aderisce in Belgio ad un movimento della Resistenza le cui effettive speranze politiche sono scarsissime; la sua morale, che pagherà caramente in termini materiali e spirituali, è ormai cambiata: almeno simbolicamente, consiste nel «rendere il colpo». Nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean, che nonostante la sua scelta è rimasto un intellettuale solitario e introverso, nel 1943 cade nelle mani della Gestapo. Gli si chiede di rivelare i nomi dei suoi compagni e mandanti, altrimenti è la tortura. Lui non è un eroe; nelle sue pagine, ammette onestamente che se li avesse conosciuti avrebbe parlato, ma non li sa. Gli legano le mani congiunte dietro la schiena, e per i polsi lo sospendono a una carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano e rimangono rivolte all’in su, verticali dietro la schiena. Gli aguzzini insistono, infieriscono con le fruste sul corpo appeso ormai quasi incosciente, ma Jean non sa nulla, non può rifugiarsi neppure nel tradimento. Guarisce, ma è stato identificato come ebreo, e lo spediscono ad Auschwitz-Monowitz, lo stesso Lager in cui anch’io sarei stato rinchiuso qualche mese più tardi. Pur senza esserci mai riveduti, ci siamo scambiate alcune lettere dopo la liberazione, essendoci riconosciuti, o per meglio dire conosciuti, attraverso i rispettivi libri. I nostri ricordi di laggiù coincidono abbastanza bene sul piano dei dettagli materiali, ma divergono su un particolare curioso: io, che ho sempre sostenuto di conservare di Auschwitz una memoria completa e indelebile, ho di-menticato la sua figura; lui afferma di ricordarsi di me, anche se mi confondeva con Carlo Levi, a quel tempo già noto in Francia come fuoruscito e come pittore. Dice anzi che abbiamo soggiornato per qualche settimana nella stessa baracca, e che non mi ha dimenticato perché gli italiani erano così pochi da costituire quasi una rarità; inoltre, perché in Lager, negli ultimi due mesi, io esercitavo