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3. L’INFERNO È AMICO DELLE STORIE C’è molta differenza tra ciò che è desiderabile nella vita e ciò che invece renderebbe desiderabile una storia. Di solito alle persone piacciono le storie perché permettono loro di evadere dalla realtà, ma se ciò fosse vero, sarebbe lecito aspettarsi perlopiù storie a lieto fine dove tutto va bene e buoni non soffrono mai, cosa che invece accade meno spesso. I nostri mondi di finzione sono nell’insieme paesaggi horror; la finzione narrativa ci potrà anche liberare temporaneamente dai nostri problemi, ma lo fa irretendoci in una nuova serie di problemi: conflitti, tensioni e disgrazie mortali. Nella finzione narrativa c’è un paradosso che Aristotele rivelò per primo e chiamò poetica: siamo conquistati dalla finzione perché ci dà piacere, ma la maggior parte di ciò che è contenuto nella funzione è di fatto spiacevole. In parole povere, a prescindere dal genere, se non ci sono problemi intricati, non c’è storia. In realtà, gli scrittori hanno sperimentato storie del tutto normali. Il cosiddetto iperrealismo si libera degli espedienti della trama della narrativa tradizionale e presenta stralci di vita così come la viviamo realmente. L’autore di crime novels Elmore Leonard ha affermato che i suoi romanzi sono come la vita, ma privata di tutte le sue parti noiose. L’iperrealismo ripristina queste parti. L’iperrealismo è interessante in quanto esperimento , ma, come gran parte dei generi che rompono le convenzioni fondamentali della narrazione, quasi nessuno riesce a leggerne le opere. È prezioso soprattutto perché ci aiuta a capire che cosa la finzione narrativa è mostrando cosa non è. L’iperrealismo fallisce per la stessa ragione per cui falliscono le storie di puro appagamento: a entrambi manca l’ingrediente chiave, ovvero il meccanismo della trama sviluppato intorno ai problemi. La finzione narrativa è incentrata sui problemi. Il conflitto è l’elemento fondamentale della finzione narrativa. Nella vita, spesso ha una connotazione negativa, invece nella finzione, che sia comica o tragica, il conflitto drammatico è essenziale perché in letteratura solo i problemi sono interessanti. Al di sotto della superficie di tutta la più disparata varietà di storie raccontate c’è una struttura comune. I protagonisti vogliono tutti qualcosa: sopravvivere, conquistare, ritrovare,... Ma grossi ostacoli si ergono tra i protagonisti e ciò che vogliono. Praticamente tutte le storie - tragiche, comiche, romantiche - sono incentrate sugli sforzi di uno o una protagonista per ottenere, di solito a qualunque costo - ciò che desidera  Storia: personaggio + situazione difficile/problema + tentativo di superamento. Come ha dimostrato il linguista Noam Chomsky, tutte le lingue umane hanno in comune alcuni principi costitutivi di base: una grammatica universale. E lo stesso vale, secondo l’autore, per le storie. Come molti studiosi della letteratura mondiale hanno rilevato, le storie si dipanano a un piccolo numero di tematiche principali. Universalmente, le storie si focalizzano sulle grandi difficoltà della condizione umana: sesso, amore, paura della morte, sfide della vita, potere. Non si incentrano sull’andare in bagno o guidare l’auto, a meno che queste attività non abbiano connessione coi più vasti problemi del mondo. Perché le storie si concentrano intorno ad alcuni grandi temi, e perché rispettano in maniera così costante la struttura basata sul problema? Perché seguono questa impostazione e non tutte le altre che potrebbero avere? Penso che la struttura basata sul problema riveli una delle funzioni principali dello storytelling: suggerisce che la mente umana sia stata modellata per le storie, così che possa essere modellata dalle storie. Le storie costituiscono lo spazio nel quale gli individui si esercitano a utilizzare le competenze più importanti della vita sociale umana. Burroway sostiene che il principale vantaggio offerto da questa pratica sia la possibilità di vivere delle esperienze surrogate, soprattutto emozionali, senza esporsi in prima persona. Oakley considera le storie come simulatori di volo per la vita sociale umana che ci permettono di vivere esperienze forti rimanendo vivi (es: possiamo sperimentare cosa voglia dire affrontare un uomo pericoloso e, se va male, l’eroe della storia muore al posto nostro). SIMULARE EQUIVALE A FARE I neuroni specchio potrebbero anche essere alla base della capacità umana di creare nella mente potenti simulazioni di fronte a una finzione narrativa. Negli anni ’90, per caso, un gruppo di scienziati italiani scoprì i neuroni specchio nelle scimmie. Da allora si sono compiuti numerosi studi sia su animali che su umani e si suppone che anche l’uomo possegga delle reti neurali che si attivano quando si esegue un’azione o si sperimenta un’emozione, ma anche quando osserviamo qualcun altro eseguire quell’azione o provare quell’emozione. Secondo un pioniere della ricerca su questi neuroni Iacoboni, i film ci sembrano tanto autentici perché nel nostro cervello i neuroni specchio ricreano per noi il dolore che vediamo sullo schermo. Entriamo in empatia coi personaggi immaginari - sappiamo ciò che stanno provando - perché noi stessi sperimentiamo quelle identiche sensazioni. Quando vediamo le star del cinema baciarsi alcune delle cellule che si attivano in quel momento nel nostro cervello sono le stesse che si attivano quando siamo noi a baciare qualcuno che amiamo. Le storie influiscono su di noi a livello fisico; quando vediamo il protagonista di un racconto in difficoltà le nostre pulsazioni aumentano; guardando un film horror, se la vittima viene attaccata ci tendiamo in posizioni difensive o compiamo oscillazioni col corpo come se stessimo davvero schivando i colpi in una battaglia. Nel loro libro The Media Equation gli scienziati informatici Reeves e Nass mostrano che le persone rispondono alle forme funzionali e ai videogiochi in modo del tutto simile a come rispondono a eventi reali. Secondo gli autori, i media uguagliano la vita reale. Il fatto di sapere che la finzione è finzione non impedisce al cervello di elaborarla emozionalmente come se fosse reale. Questi studi sul cervello e la finzione sono coerenti con la teoria secondo cui le storie sono simulazioni di problemi. A questo punto è d’obbligo fare una distinzione fra il modello di simulazione del problema che sto descrivendo e un modello connesso avanzato da Steven Pinker. Nel suo libro Come funziona la mente Pinker sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. In questo modo, noi ci attrezziamo per la vita reale assorbendo schemi di gioco funzionali. Ma questo modello ha dei limiti. • Come alcuni critici hanno sottolineato, la finzione narrativa può rivelarsi una guida terribile per la vita reale. Che cosa avverrebbe se cercassimo davvero di applicare soluzioni funzionali ai nostri problemi? • un altro problema è connesso alla memoria esplicita, ovvero il tipo di ricordi ai quali abbiamo accesso consciamente. Se si prova a ricordare romanzi e film che ci hanno segnato, ma che abbiamo visto diversi anni fa, ci rendiamo conto di come la nostra mente riesca a mettere a fuoco solo alcuni personaggi chiave e il succo della storia, mentre quasi tutti i dettagli saranno andati persi nelle nebbie dell’oblio. E questo per le storie che ci ha colpito di più. Se provassimo a pensare alle migliaia delle più banali sit-com, film e libri fruiti nello stesso periodo ci accorgeremmo che praticamente nessun dettaglio di essi sarà rimasto nella vostra banca della memoria. Al contrario, il modello di simulazione che si sta descrivendo qui non dipende dalla nostra capacità di immagazzinare scenari funzionali in maniera accurata e accessibile, bensì dalla memoria implicita, cioè tutto quello che il cervello sa ma noi no. La memoria implicita è inaccessibile alla mente conscia. Quando viviamo un’esperienza finzionale, la nostra mente si attiva e determina nuove connessioni neurali, preparando le vie nervose che regolano le nostre risposte alle esperienze di vita reale. Da diversi anni alcuni ricercatori girano intorno a questa idea, ma non hanno fatto molti progressi nel dimostrarla, non tanto perché non sia verificabile, ma perché non è pratica corrente cercare risposte scientifiche a questioni letterarie. Oakley e Mar in uno studio hanno riscontrato che i lettori forti di fiction hanno competenze sociali migliori (misurate con test di abilità sociali ed empatiche) di coloro che leggono principalmente non-fiction. E questo non perché le persone che già hanno buone abilità sociali siano naturalmente inclini alla fiction. Oakley sostiene che le differenze nelle abilità sociali venivano spiegate soprattutto dal tipo di letture prevalentemente compiute dalle persone. Questi risultati non sono così scontati. Al contrario, gli stereotipi del topo di biblioteca e del teledipendente introverso e pantofolaio potrebbero indurci a credere che consumo di finzione narrativa sia dannoso per le abilità sociali, anziché incrementarle. La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e ridefinisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell’esistenza. In questo senso, siamo attratti dalla finzione narrativa non a causa di un’anomalia dell’evoluzione ma perché la finzione è evolutivamente vantaggiosa per noi. Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie.