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Perché gli esseri umani hanno sviluppato una vera e propria dipendenza per l’Isola che non c’è? In che modo siamo diventati l’animale che racconta storie? 1. IL POTERE AMMALIANTE DELLE STORIE • Gli autori ingannano i lettori inducendoli a compiere la maggior parte del lavoro di immaginazione. • La lettura è spesso considerata un atto passivo: ci sprofondiamo in poltrona e lasciamo che la musica dello scrittore suoni nel nostro cervello. Ma non è affatto così. Quando entriamo a contatto con una storia, la nostra mente macina a getto continuo. • Talvolta gli scrittori paragonano la propria opera alla pittura. Ogni parola è un tratto di colore. Ma uno sguardo attento mostra come gli scrittori disegnino piuttosto che dipingere. Ci offrono dei contorni abilmente tracciati con qualche suggerimento su come riempirli. La nostra mente fornisce la maggior parte delle informazioni alla scena: la maggior parte dei colori, delle ombreggiature e della matericità. Quando leggiamo delle storie, questo corposo sforzo creativo è continuamente in atto, procede instancabilmente al di fuori della nostra consapevolezza. Lo scrittore dunque non è un architetto onnipotente della nostra esperienza di lettura. Un autore scrive delle parole, che però sono inerti. Per essere portate in vita hanno bisogno di un catalizzatore, e il catalizzatore è l’immaginazione del lettore. Nemmeno da adulti abbandoniamo mai la finzione. Solo cambiano il modo di praticarla. Romanzi, sogni (non smettiamo di sognare neanche quando ci svegliamo; durante la veglia, infatti, sogniamo ad occhi aperti), film e fantasticherie (ripercorriamo vittorie o sconfitte, immaginiamo cose non accadute, risposte che avremmo voluto dare in una certa situazione, come risolvere un problema) sono tutte province dell’Isola che non c’è. Il nostro corpo è bloccato nel qui ed ora, mentre l’immaginazione ci permette di muoverci liberamente nello spazio-tempo. Anche in un’epoca segnata dall’ansia per la scomparsa del libro come oggetto, l’editoria tradizionale rappresenta comunque un grosso giro di affari. E ogni anno il numero di libri di narrativa per adulti e bambini è superiore alla somma di tutte le altre categorie di libri non di finzione. Ciò nonostante, anche se più del 50% degli americani ancora legge narrativa, spiace rilevare che se ne legga molta meno che in passato. Secondo un’indagine condotta dal Bureau of Labor Statistics, l’americano medio legge poco più di venti minuti al giorno, e queso dato include tutto, dai romanzi ai quotidiani. Non leggiamo più come una volta, ma non perché abbiamo abbandonato la finzione narrativa: semplicemente, la pagina è stata soppiantata dallo schermo. Dedichiamo una quantità di tempo sbalorditiva a guardare opere di finzione sugli schermi, a guardare programmi televisivi. Quando i bambini americani hanno raggiunto l’età adulta avranno trascorso più ore davanti alla televisione che facendo qualsiasi altra cosa, scuola compresa. E questi dati non tengono conto del tempo che trascorriamo al cinema o guardando dvd. Che sono pari a cinque ore al giorno. C’è poi la musica. Il musicologo e neuroscienziato Daniel Levitin stima che ascoltiamo circa cinque ora di musica al giorno. Sembra impossibile, ma nel suo calcolo Levitin ha compreso tutto: sottofondi musicali in ascensore, colonne sonore, cinema, pubblicità e tutto ciò che ci iniettiamo nel cervello con gli auricolari. Naturalmente, non tutta la musica racconta una storia, ma i generi più diffusi di musica narrano vicende di protagonisti che combattono per ottenere ciò che vogliono. Questo non cambia il fatto che raccontino storie: la sola differenza è che le travestono. Kayfabe: sospensione dell’incredulità in passato rincorsa dalle federazioni di wrestling per nascondere il fatto che tutta la violenza è simulata. Alcuni scienziati sociali fanno rientrare le pubblicità nella categoria dei fictional screen media. In effetti sono dei racconti in trenta secondi. 2. L’ENIGMA DELLA FINZIONE I bambini sono attratti dall’arte per natura, non per cultura. I bambini non necessitano di alcuna guida per creare storie. Perché i bambini sono creature così indissolubilmente legate alle storie? L’enigma dell’attitudine a narrare si riduce a questo: l’evoluzione è implacabilmente utilitaristica; come mai l’apparente lusso rappresentato dalla finzione narrativa non è stato eliminato dalla vita umana? Perché gli esseri umani producono e consumano arte quando il farlo ha dei costi notevoli in termini di tempo ed energia e nessun vantaggio biologico evidente? 1. Brian Boyd: - storie come gioco cognitivo - “Un lavoro artistico funge da parco giochi per la mente”. Boyd suggerisce che la libera espressione dell’arte, in tutte le sue forme, agisce sui nostri muscoli mentali come giocare alla lotta agisce sui muscoli fisici. 2. John Gardner: - storie come collante sociale- “La vera arte crea dei miti in base ai quali una società può vivere, ed evitare di morire”. 3. Fonti poco costose di informazioni e apprendimento 4. Selezione sessuale 5. Potrebbero anche non servire a nulla dal punto di vista evoluzionistico La finzione narrativa è una droga. Si possono inventare le più nobili giustificazioni estetiche (o evoluzionistiche) per la propria assuefazione al consumo di storie, ma le storie sono semplicemente una droga che utilizziamo per sfuggire alla noia e alle brutture della vita reale (Kessel). A che cosa servono le storie? Il cervello non è progettato per la narrazione; nel suo design vi sono delle anomalie che lo rendono vulnerabile alla narrazione. Le storie potrebbero quindi essere degli effetti collaterali, oppure servire a qualcosa o entrambe le cose. Osservare il gioco di finzione dei bambini dà utili indicazioni sulla funzione delle storie. Il gioco dei bambini non è un’evasione dalla realtà, bensì un comportamento che affronta di petto i problemi della condizione umana; riguarda mamme e papà, mostri ed eroi, astronavi e unicorni, ma è soprattutto incentrato sui problemi, sulle situazioni che generano ansie e preoccupazioni. Talvolta sono i problemi della vita quotidiana, oppure problemi esistenziali. Inoltre, come dimostra Melvin Kenner nel suo monumentale The Evolution of Childhood, ci sono significative differenze di genere, riscontrate in tutto il mondo, nel modo in cui giocano maschi e femmine. Decine di studi, hanno sostanzialmente confermato ciò che Paley (insegnante americana che, preoccupata che i giochi potessero perpetuare e radicare stereotipi di genere, ha invano cercato di modificare il modo di giocare di bambini e bambine nelle sua classe) aveva osservato nella sua classe di una scuola del Midwest americano: bambini e bambine tendono spontaneamente ad autosegregarsi in base al proprio sesso, inoltre: • i maschi giocano in un modo molto più disordinato e turbolento; sono tendenzialmente più aggressivi e meno accoglienti delle femmine • il gioco di immedesimazione è più frequente nelle femmine, che sono più sofisticate e più indirizzate al fingere di essere genitori. L’Isola che non c’è abitata dai maschi è molto pericolosa, con minacce di morte e distruzione disseminate ovunque. Il tempo che vi trascorrono è per la gran parte dedicato a cercare di combattere o sfuggire queste minacce. Anche l’Isola che non c’è abitata dalle femmine ha i suoi pericoli, però non è così affollata di uomini neri o assassini armati di asce, e non così focalizzata sul gioco fisico scatenato. Le situazioni difficili affrontate dalle bambine sono spesso di un genere meno estremo, più incentrato sulle crisi domestiche della quotidianità. Tuttavia è importante sottolineare che il gioco femminile sembra meno problematico se confrontato alla baraonda di quello maschile, ma non lo è. Rischi e zone oscure si annidano anche nell’angolo delle bambole. Paley riferisce come, a un primo sguardo, possa sembrare che le bambine stiano dolcemente giocando alla mamma con il neonato. Ma, osservandole più da vicino, scopriamo che il bimbo stava quasi per bere il succo avvelenato, poi un cattivo cerca di rapirlo, dopodiché “si rompe le ossa”. Oggi gli esperti di psicologia infantile concordano col fatto che il gioco di finzione serve a qualcosa, ha delle funzioni biologiche; è diffuso in tutti i mammiferi, specialmente in quelle più intelligenti. Aiuta i giovani a simulare azioni per prepararsi alla vita adulta, quindi giocando i bambini allenano il loro corpo e cervello per le sfide che affronteranno da grandi. Il gioco è quindi il lavoro dei bambini. Le differenze fra i sessi nel gioco infantile rispecchiano il fatto che l’evoluzione biologica è lenta, mentre l’evoluzione culturale è veloce. La prima non è stata al passo con i rapidi cambiamenti nella vita di uomini e donne che si sono verificati principalmente negli ultimi cento anni. Il gioco infantile sembra preparare le bambine per un’esistenza accano al focolare e i bambini per agire nel mondo esterno. Gli antropologici non hanno mai scoperto una cultura in cui, poniamo, le donne si occupassero principalmente della guerra e gli uomini della cura dei figli. L’idea che il genere abbia profonde radici biologiche è qualcosa che oggi quasi tutti accettano, ma che tuttavia si evita di dire al alta voce. Suona un po’ troppo come un limite allo sviluppo del potenziale umano, specialmente alla possibilità per le donne di assumere ruoli di parità culturale. Ma i grandi rivolgimenti nella vita delle donne avvenuti nell’ultimo mezzo secolo - prodotti in larga misura da mezzi di contraccezione - dovrebbero attenuare i nostri timori.