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In un tempo non molto lontano, ci sono state persone che hanno trovato la forza di opporsi alle prepotenze dei regimi. Ecco alcuni tratti di un uomo che ha lottato con la penna e con il pensiero. La cultura asservita al regime “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio”. Il giuramento è un atto di fedeltà che sancisce obblighi e promesse, chi lo recita si impegna ad accoglierlo in ottemperanza di “doveri” da onorare una volta pronunziati. L’art. 18 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, rappresenta l’ultimo tassello, da parte del fascismo, per completare il percorso di edificazione del regime totalitario, fino a quel momento “capace solo di violenza fisica ma poverissimo culturalmente”. La dittatura aveva sentito l’esigenza di trincerarsi dietro la figura di intellettuali, per cancellare progressivamente, l’onta delle violenze che gli avevano consentito la conquista del potere. Nel percorso di realizzazione, della cosiddetta Terza Roma, si sentiva la necessità di costituire una macchina di consenso che mutasse l’immagine bruta del partito, per edificare uno stato che fosse “il degno erede” della gloria di un passato millenario. Il “Manifesto degli intellettuali Fascisti” del 1925, ad opera di Giovanni Gentile, è la prova tangibile che il regime incamera il mondo accademico, affidandosi ai contribuiti di uomini di cultura, anche grazie alla creazione di associazioni fasciste di gruppi universitari (GUF). Tuttavia, si rende necessaria una fascistizzazione dell’intero alveo culturale, compiendo il grande passo che consente di fagocitare chi ancora si illude di mantenere immutata la propria libertà di pensiero; è il 1931 e su suggerimento del filosofo Balbino Giuliano, “I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento di fedeltà al regime”. Leone Ginzburg è un giovane docente di letteratura russa non ancora venticinquenne e il 9 gennaio del 1934, all’avvio di una brillante carriera, compie un gesto coraggioso che traccia il destino della sua esistenza. Al suo insegnamento non accetta condizioni che non riguardino aspetti tecnici o scientifici; l’onore della sua stessa vita, rappresenta un valido motivo per mantenere la rettitudine morale che viene esplicata nero su bianco al preside della facoltà di lettere, nonché suo relatore di laurea, Ferdinando Neri: “Illustre professore, ricevo la circolare del Magnifico Rettore, in data 3 gennaio, che mi invita a prestare giuramento, la mattina del 9 corrente alle ore 11, con la formula stabilita dal Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore. Ho rinunciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare giuramento” Nel momento in cui il giovane insegnante si oppone alla volontà di chinare il capo al regime, l’obbligo di giurare fedeltà al fascismo è in vigore da due anni e, nell’estate del 1933, è esteso anche ai liberi docenti: non sono contemplati accordi. Il rifiuto decreta, in automatico, la perdita della cattedra senza alcun diritto ad indennizzi o alla pensione maturata. Molti sono coloro che si piegano al dictat, anche alcuni antifascisti decidono di “chinare il capo ma stringere i pugni” senza lasciare campo libero ai nemici; illudendosi di “resistere dall’interno”, giurano, per amore dell’insegnamento, evitando che questo finisca nelle pessime mani di professorucoli appartenenti al Partito fascista. A rafforzare il coraggio del suo gesto, è necessario evidenziare che, solamente 13 cattedratici su più di 1.200, rifiutano il giuramento, ma quasi tutti prossimi alla conclusione della loro carriera. Il NO di Ginzburg racchiude, invece, il gesto potente di chi non riesce ad anteporre compromessi alla propria morale, è uno scatto di ribellione che non cede il passo all’omologazione culturale che la dittatura sta edificando. Il sapere come resistenza. Con quali armi battersi contro il fascismo? Come suggerisce Carlo Rosselli, la lotta contro il fascismo, non può consistere in un meccanico rovesciamento di regime ma è un problema di educazione morale e politica . L’antifascismo, di fatti, non diventa solo una scelta politica ma esistenziale, la conoscenza, pertanto, diviene l’antidoto al regime: uno strumento che rende possibile la realizzazione del progresso civile dell’individuo. Con Leone Ginzburg, traendo in prestito le parole di Angelo d’Orsi, siamo davanti a una personalità che ha praticato un’apertura a trecentosessanta gradi sul piano culturale, la sua resistenza, non risiede nella comune scelta di una lotta armata, ma è una “triplice pulsione” che propaga valori etici, morali ed esistenziali: una filosofia di vita, figlia della formazione del liceo D’Azeglio di Torino, e dell’incontro con Benedetto Croce. I consigli di quest’ultimo, infatti, lo aprono ad una visione “illuminista” promotrice di libertà, in cui poter rintracciare nel sapere un “pensiero di contropotere. Nella Torino di Ginzburg, Pavese, Bobbio, Foa, Gobetti e Carlo Levi, resiste una visione che ricerca strade alternative in cui poter fare cultura “non necessariamente a gloria del Duce”. È così che si avvia un lavoro che operi alle radici, una controinformazione finalizzata a scuotere le coscienze e far comprendere, nella società, la possibilità della coesistenza di una pluralità di visioni. Nel 1938, la promulgazione delle leggi razziali priva Ginzburg della cittadinanza italiana. Se pur apolide, si sente erede della tradizione culturale italiana, la stessa che il fascismo ha inquinato con la sua retorica, in un processo di dispersione di coscienza morale. Manifesta pietà verso coloro che sono rimasti intrappolati in una forma di compromesso di coscienza; una gioventù, di fatti, compromessa in maniera irreversibile, da una maschera che indossata per troppo tempo, “non vuol più staccarsi”. Sulla base di tali presupposti, Ginzburg, nel 1933, assieme a Cesare Pavese e Giulio Einaudi, diviene cofondatore e agitatore culturale dell’omonima casa editrice. Come poter trovare la forza per resistere? Ricercando, nelle grandi opere, il filo conduttore con il passato che aiuta a svegliare le coscienze smarrite in “una comunione di vita tra i vivi e i morti”. Spiritus durissima coquit, lo spirito digerisce le cose più dure. Diviene il mantra che accompagna le pubblicazioni e che racchiude la potenza letteraria al servizio della collettività; l’obiettivo è proporre un’idea di conoscenza non elitaria che accoglie non solo un pubblico raffinato ma che offre “libri per tutti e a prezzi popolari”. Un obiettivo mirato a costruire uno spazio di critica, un’agorà che funga da contraltare alla cultura totalitaria. Il 20 novembre 1943, nella Roma occupata dai nazisti, in via Basento 55, un uomo viene arrestato mentre opera clandestinamente ad una nuova stampa de “L’Italia libera”, il giornale del Partito d’azione. Sui documenti è scritto: Leonida Gianturco, pseudonimo dietro cui si cela l’identità di Ginzburg che di lì a breve sarà smascherata. Il 4 febbraio 1944, dopo mesi di torture e sevizie, Leone, esalando il suo ultimo respiro nel carcere di Regina Coeli, pose fine alla sua esistenza, lasciando in eredità il messaggio di chi crede sia possibile non chinare il capo alla violenza di un regime, anche solo utilizzando il potere delle parole, come arma sanguinaria. Nel suo ideale di esistenza, Ginzburg non scisse mai due caratteri che agirono congiuntamente verso un unico fine: vivere in uno scenario storico complesso senza mettere da parte i valori della vita. Un proscenio che stenta a comprendere fino in fondo chi ha avuto la fortuna di nascere in un paese pacifico e democratico. Nulla gli impedì di proseguire la sua politica esistenziale: una lotta compiuta strenuamente in nome dell’avvenire. Gli arresti, il confino e la promulgazione delle leggi razziali, non gli permisero di conferire la paternità ufficiale alle sue opere ma non lo fermarono davanti all’auspicio di realizzare una realtà alternativa in cui sia possibile un pluralismo di opinioni. Se è vero, come affermava Gramsci, che vivere è il presupposto per essere partigiani, Ginzburg ne è stata una delle massime espressioni. Il suo cinismo e la sua resistenza hanno conferito un contributo importante a deviare il corso degli eventi, senza cedere il passo a quell’indifferenza che opera passivamente, ma in maniera decisiva, nella storia.